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di Valeria Tarroni (Consiglio di Stato, sez. II, sentenza n. 5132 del 22/6/2022) Seppure è vero che l’acquisizione gratuita opera di diritto a seguito dell’inottemperanza all’ordine di demolizione, in via generale ai sensi dell'art. 31, comma 4, d.P.R.

La questione sottoposta alla Corte di Cassazione trae origine da un giudizio per l'accertamento del danno biologico e morale causato dall'esposizione all'amianto attivato dagli eredi di un lavoratore morto di cancro a causa dell'esposizione al materiale tossico
 

1 LUGLIO 2022

Di G. Crepaldi
 
Nota a: Cassazione civile, sez. Lav., 17/06/2022, n. 19623.
 
Il danno morale costituisce un patema d’animo, cioè una sofferenza interna che non è accertabile con metodi scientifici e che, come tutti i moti d’animo, può essere provato in modo diretto solo quando assume connotati eclatanti; diversamente, dovrà essere accertato per presunzioni. Pertanto, il lavoratore sottoposto quotidianamente al pericolo della propria incolumità subisce un’offesa della personalità morale autonoma rispetto al danno biologico che è quindi indennizzabile come posta di danno a sé, indipendentemente dalla sussistenza del danno biologico.
 
Fatto 
Il Tribunale di Massa ha parzialmente accolto il ricorso nei confronti dell’azienda P. Alle cui dipendenze il loro parente aveva prestato la propria attività lavorativa dal 24.7.1959 al 30.6.1990, con mansioni di saldatore. Tale ricorso era diretto ad ottenere il risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale subito dal congiunto in seguito all’esposizione all’amianto, condannava la società al risarcimento dei danni non patrimoniali.
 
La Corte di Appello di Genova ha rigettato il gravame interposto dalle eredi sottolineando, tra l’altro, che non può condividersi “quanto sostenuto dalle appellanti” circa il fatto che “il CTU non abbia applicato i criteri di Helsinki relativi alla c.d. Esposizione cumulativa ad amianto, i quali prevedono un raddoppio del rischio nel caso di superamento della dose di 25 ff/cc.”; che “tali criteri si riferiscono all’ipotesi in cui l’esposizione ad amianto non concorra con altri agenti cancerogeni”; che “nel caso in questione, purtroppo, bisogna fare i conti con un altro importante fattore di rischio del carcinoma polmonare del lavoratore, in vita, è stato esposto: risulta infatti dalla documentazione medica in atti (cartelle mediche dei ricoveri) che costui abbia fumato ca 15-20 sigarette al giorno sino ad un’epoca collocabile tra il 2001 ed il 2003”.
 
La sentenza è stata impugnata in Cassazione.
 
La decisione
Il ricorso è accolto.
 
Motivazioni
Il primo motivo solo apparentemente censura una violazione di legge, ma tende, nella sostanza, ad ottenere una nuova valutazione del merito, non consentita in questa sede non è fondato, poiché, come correttamente sottolineato dai giudici di seconda istanza, nella fattispecie sussiste un “concorso di cause di lesione, cagionante un evento patologico unitario ed indivisibile, in presenza del quale non può che essere applicato il principio di equivalenza delle concause ex artt. 40 e 41 c.p.”, non essendo possibile effettuare una ripartizione causale tra i due fattori cancerogeni, “entrambi egualmente responsabili della causazione dell’evento dannoso”. Pertanto, applicando il principio di equivalenza delle concause, la responsabilità del datore di lavoro “che non ha usato adeguate precauzioni idonee a contenere l’esposizione all’amianto entro limiti non pericolosi, e quella del tabagismo nella causazione dell’evento sono equivalenti, senza alcuna prevalenza dell’una sull’altra”. Dunque, correttamente, la Corte di merito afferma che “la ripartizione tra i due fattori di rischio non riguarda la responsabilità nella causazione del danno, ma l’entità del risarcimento del danno”, che, nel caso di specie, è stata ridotta, per quanto innanzi esplicitato, rispetto alla richiesta delle ricorrenti.
 
Quanto alle censure che investono la “valutazione degli esiti della c.t.u.”, vanno ribaditi gli ormai consolidati arresti giurisprudenziali della Suprema Corte nella materia, del tutto condivisi da questo Collegio, che non ravvisa ragioni per discostarsene – ed a cui, ai sensi dell’art. 118 disp. Att. C.p.c., fa espresso richiamo (cfr., ex plurimis, Cass. Nn. 18358/2017; 3881/2006; 3519/2001), alla stregua dei quali, ove il giudice di merito “condivida i risultati della consulenza tecnica di ufficio, non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento, atteso che la decisione di aderire alle risultanze” della stessa “implica valutazione ed esame delle contrarie deduzioni delle parti, mentre l’accettazione del parere del consulente, delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce motivazione adeguata, non suscettibile di censure in sede di legittimità”; peraltro, nella fattispecie, la Corte di merito ha fornito ampie argomentazioni circa l’adesione alle conclusioni del C.t.u., non confutate efficacemente dal primo mezzo di impugnazione.
 
Il secondo motivo è fondato; al riguardo, va premesso che le SS.UU. Di questa Corte (sent. N. 6572/2006) hanno sottolineato che, in caso di violazione dell’art. 2087 c.c., il risarcimento del danno non patrimoniale, nella cui sfera deve essere ricondotto il danno morale, data la natura unitaria del primo, “e’ dovuto soltanto qualora sia fornita la prova della sussistenza del pregiudizio, che può essere offerta anche tramite presunzioni”; ed inoltre che (Cass., SS.UU. N. 26972/2008) “l’art. 2059 c.c., opera esclusivamente sul piano della limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale ai soli casi previsti dalla legge (illecito astrattamente configurabile come reato; illecito non qualificabile come reato, ma che per espressa previsione di legge impone il ristoro di un danno non patrimoniale; illecito che abbia leso diritti inviolabili della persona, oggetto di tutela costituzionale), lasciando integri gli elementi della fattispecie costitutiva dell’illecito ex art. 2043 c.c.: la condotta illecita, l’ingiusta lesione degli interessi tutelati dall’ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell’interesse leso”.
 
Pertanto, il danno non patrimoniale, quale “danno-conseguenza”, va allegato e provato ai fini risarcitori – in quanto non può essere considerato in re ipsa -, ma ciò può avvenire anche mediante presunzioni (v., ex plurimis, Cass. Nn. 33123/2021; 7471/2012; 13614/2011; 20987/2007), poiché, “costituendo il danno morale un paterna d’animo e quindi una sofferenza interna del soggetto, esso, da una parte, non è accertabile con metodi scientifici e, dall’altra, come per tutti i moti d’animo, solo quando assume connotazioni eclatanti può essere provato in modo diretto, dovendo il più delle volte essere accertato in base ad indizi e presunzioni che, anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità” (v., tra le altre, Cass. Nn. 8546/2008; 13754/2006; 11001/2003).
 
Nella fattispecie, per quanto doviziosamente specificato nel ricorso, sono state allegate le basi del ragionamento inferenziale per pervenire, attraverso il ricorso alle presunzioni, alla configurazione del danno morale personalizzato, costituito dall’offesa della personalità morale del lavoratore, sottoposto quotidianamente a pericolo per la propria incolumità, da cui, all’evidenza, è derivata una patente lesione – autonoma rispetto al danno biologico – di diritti inviolabili della persona, oggetto di tutela costituzionale (v., in particolare, artt. 2,3 e 32 Cost.). Al proposito, va altresì osservato che, con la sentenza n. 2611/2017, le Sezioni Unite hanno ulteriormente chiarito che “il danno derivante dallo sconvolgimento dell’ordinario stile di vita è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, rafforzati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo”, art. 8, sottolineando, ancora, che “la prova del pregiudizio subito può essere fornita anche mediante presunzioni, sulla base di nozioni di comune esperienza, perché la dimostrazione del pregiudizio può essere ricavata anche dall’esame della natura e dall’entità delle immissioni a cui è sottoposto il danneggiato”.
 
Nel caso di specie, i giudici di appello non hanno fatto corretta applicazione dei menzionati principi di diritto, anche in considerazione del fatto che, nell’atto introduttivo del giudizio, espressamente richiamato nel ricorso di legittimità, erano stati allegati (v., pure, quanto specificato nel secondo motivo, sopra riportato) gli elementi da utilizzare ai fini della prova presuntiva della sofferenza morale.
 
Per le considerazioni innanzi svolte, la sentenza va cassata, in relazione al secondo motivo di ricorso rigettato il primo, con rinvio della causa alla Corte di Appello di Genova, in diversa composizione.
 
NOTE
 
Giurisprudenza citata in motivazione.