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Le attività vietate ai pubblici dipendenti

La Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per l’Umbria, sentenza n. 60 del 7 settembre 2022 ribadisce importanti principi in tema di attività vietate ai pubblici dipendenti
 

19 OTTOBRE 2022

La Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per l’Umbria, sentenza n. 60 del 7 settembre 2022 ribadisce importanti principi in tema di attività vietate ai pubblici dipendenti.

La vicenda ha riguardato un dipendente di un’azienda sanitaria umbra, che ha prestato per diversi anni attività retribuita quale componente del consiglio di amministrazione di una società per azioni (2009-2012) e amministratore unico di altra società a responsabilità limitata (2012-2018), mantenendo inalterato il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno con il proprio datore di lavoro pubblico.

La Corte dei Conti contesta al dipendente diverse fattispecie di illecito contabile.

Innanzitutto, viene contestata la violazione della normativa sugli incarichi consentiti ai pubblici dipendenti, in cui vige un divieto assoluto di assumere cariche in società a fine di lucro, divieto, pertanto, non rimovibile con l’autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, fatta salva l’unica ipotesi in cui il dipendente trasformi il proprio rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale con prestazione non superiore al 50% del tempo pieno.

La norma impeditiva sopra citata è l’articolo 60 del D.p.r. n. 3/1957 che dispone che “L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente”; divieto mitigato dall’art. 53, comma 1, del decreto legislativo n. 165/2001 che fa salva  la deroga prevista dagli articoli 57 e seguenti della legge 23 dicembre 1996, n. 662, ossia i rapporti a tempo parziale per una prestazione non superiore al 50% del tempo pieno.

Il dipendente in questione, tuttavia, non ha richiesto al suo ente la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, ma ha semplicemente richiesto l’autorizzazione dall’azienda sanitaria ad assumere le cariche citate, senza che questa potesse essere lecitamente rilasciata in quanto rientrante tra quelle attività assolutamente vietate ai pubblici dipendenti.

La Corte peraltro rileva che il funzionario addetto – convenuto nel giudizio di responsabilità insieme al dipendente in questione – non ha nemmeno rilasciato un vero e proprio provvedimento autorizzatorio chiusura del giudizio (comunque erroneo) effettuato in concreto, ma si è limitato ad apporre un mero visto alla richiesta, “privo di alcuna valutazione dell’attività da svolgersi, del suo raffronto con il quadro normativo applicabile e della sua compatibilità con quella d’ufficio”.

La decisione

Il giudice contabile asserisce pertanto testualmente che “Ancorché decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 si riferisca letteralmente agli incarichi per cui siano stati omessi la richiesta di autorizzazione e il versamento del compenso in ipotesi di violazione del divieto di assumere incarichi retribuiti senza autorizzazione, non può esservi alcun dubbio in ordine all’applicabilità del disposto normativo anche all’ipotesi più grave dello svolgimento di incarichi non autorizzabili perché incompatibili per i pubblici dipendenti a norma del citato art. 60 del D.P.R. n. 3 del 1957. Del resto, è proprio il disposto del primo comma dell’art. 53 che, facendo salva la disciplina delle incompatibilità di cui al più volte citato art. 60, attua un espresso raccordo legislativo tra le norme, evidenziando la volontà legislativa di estendere la disciplina in questione anche alle ipotesi patologiche in cui siano stati svolti incarichi vietati o siano stati persino erroneamente autorizzati su istanza del dipendente.

Viene, pertanto, quantificato il danno complessivamente imputabile ai convenuti in euro 189.401,00, ossia pari alle somme percepite dal dipendente per un incarico vietato incompatibile con il mantenimento della qualità di pubblico dipendente, e, quindi, non autorizzato. Poiché sono stati ravvisati elementi idonei ad “asseverare l’esistenza di un dolo e di un’intesa fra i convenuti”, tale danno è imputato solidalmente al dipendente trasgressore e al funzionario che ha consentito l’illecito.